L’intelligenza Relazionale sarà ciò che CI salverà dall’Intelligenza Artificiale
Resoconto (semi-serio-ma-reale) di un giro d’Italia tra manager, algoritmi e “umanità perduta”
Negli ultimi mesi ho fatto quello che nessuna intelligenza artificiale può ancora fare (per ora): attraversare l’Italia da nord a sud, fermarmi a bere caffè (pessimi) nelle aree di servizio e soprattutto… parlare. Parlare davvero. Con gli occhi negli occhi. Con le persone e con il cuore in mano.
Sono entrata in decine di aziende – alcune grandi, iper-strutturate, con più processi che scrivanie; altre familiari, affacciate su cortili in cui ancora si sente l’odore del ferro o del pane. Ovunque, però, ho trovato la stessa domanda, che non veniva mai espressa nello stesso modo, con le stesse parole ma che negli sguardi dei corsisti, nelle occhiaie tirate dei CEO, nei sospiri degli HR manager, nei mezzi sorrisi dei responsabili di produzione era comunque la stessa:
“Ma.. e dell’IA che mi dici!? Che previsioni avete voi che girate per le aziende? In temini di risorse umane come la mettiamo? E adesso, noi a cosa serviamo?”
Un amministratore delegato nel nord-ovest dell’aristocrazia industriale mi ha detto, mostrandomi la proposta per implementare una nuova dashboard di automazioni come si guarda un gratta-e-vinci vincente:
“Se riduco il personale e aumento l’efficienza… è il futuro, miglioro anche quello…no!?”
Poi si è fermato. E ha aggiunto, con un filo di voce: “Ma se faccio tutto con le macchine… chi compra? Chi mi ascolta? Chi resta?”
Nell’arrembante nord-est, una HR Manager sfogliava CV come se stesse leggendo papiri egizi, e mi chiede:
“Ma ha senso leggere ancora i CV? Tra poco l’IA li screma, li valuta, (probabilmente già li scrive al posto dei candidati). E io? Resto qui a ricaricare le cialde della macchinetta del caffè?”
Nel sud-est del commercio e dell’orizzonte a oriente, un direttore commerciale di una PMI mi ha detto – con la faccia di uno che sa di avere due anni prima dell’apocalisse – “Barbara, se non cavalchiamo l’onda dell’IA, ci travolge. Peggio delle navi corsare dei prodotti cinesi.”
Ecco, l’onda. È la parola giusta. Oggi in azienda tutti sentono l’onda: è rumorosa, veloce, potente, scintillante. Promette efficienza, riduzione dei costi, semplificazione.
E così, dal titolare visionario al caporeparto in apnea, passando per gli impiegati che si interrogano sul loro futuro, tutti – tutti – mi hanno fatto la stessa domanda, con mille variazioni sul tema:
“Come possiamo ancora competere, come individui, come professionisti, come esseri umani, in un mondo dove l’intelligenza è automatica, istantanea e non dorme mai?”
E la mia risposta – che ogni tanto mi fa prendere occhiate tipo “vabbè grazie Barbara” – è tanto semplice quanto urticante: Non puoi.
Non puoi competere sul terreno dell’IA. Non puoi vincere facendo più in fretta, più preciso, più efficiente. Perché lì l’IA gioca in casa, ha il cronometro in mano, e tu stai ancora cercando di capire bene come funziona l’hot-spot quando non c’è il Wi-Fi in sala riunioni.
Ma puoi vincere su un altro campo. Il tuo. Quello dove sei irriproducibile. Dove sei umano. Dove sei reale.
Il tuo terreno si chiama Intelligenza Relazionale.
È quello che resta quando tutto il resto si può replicare.
È ciò che le aziende non possono più permettersi di ignorare.
È ciò che ti salverà, anche quando l’IA sarà ovunque.
L’ILLUSIONE DEL “TUTTO DIGITALE”
In questo momento storico, molti imprenditori italiani si stanno comportando come bambini in un negozio di caramelle digitali. C’è chi compra un CRM come se fosse una pozione magica, chi installa chatbot come fossero oracoli, e chi pensa che basti dire “intelligenza artificiale” tre volte davanti allo specchio per diventare Elon Musk.
Ma sotto l’entusiasmo per i nuovi tool, si nasconde qualcosa di più profondo e che assomiglia tanto alla paura.
La paura di rimanere indietro.
La paura che i concorrenti li superino.
La paura che i collaboratori si perdano (e in effetti, alcuni si sono già persi… nel labirinto delle dashboard).
Quello che vedo è una digitalizzazione spesso compulsiva: processi digitali introdotti senza visione, strumenti acquistati solo perché “ce li hanno tutti”, automazioni che semplificano i numeri ma complicano le persone.
Da tanti punti di vista sembra più una fuga che un progetto.
Sì, ok, l’automazione ti fa fare prima. Ma – ad esempio – non ti dice se stai andando nella direzione giusta.
Ti dà i dati, certo. Ma non ti traduce il tono stanco di un dipendente che risponde “tutto bene” mentre ti guarda come se volesse aprire la finestra e saltare nel parcheggio.
L’IA può dirti chi clicca, cosa, quando del programma di formazione online ma non chi si spegne piano piano, giorno dopo giorno perché ha la sensazione di non evolvere di avere una carriera che sembra un binario morto.
E così, come dico spesso, mi capita di entrare in aziende che in apparenza funzionano perfettamente… ma sono clinicamente morte perché hanno dissipato l’élan vital.
Reparti in cui non si litiga mai, ma neanche si ride.
Team che non si scrivono castronerie in chat, ma neanche si chiedono come stanno.
Manager che parlano di “monitoraggio della performance” con la stessa espressione con cui si dà da mangiare a un criceto: svuotati, ripetitivi, automatici.
Tutto “funziona”. Ma nessuno è coinvolto.
Tutti parlano. Ma nessuno si ascolta.
Il problema è che il digitale non è il nemico. È il pretesto.
Il vero pericolo è quando dimentichiamo che gli strumenti servono a potenziare le relazioni, non a sostituirle.
Un gestionale ti aiuta a organizzare. Ma non crea un senso di appartenenza.
Un sistema AI può suggerirti un candidato perfetto (oltre a spottare chi ha scritto la cover letter con l’AI). Ma non ti dice se avrà voglia di restare accanto a te nei momenti difficili.
Per questo, ogni volta che qualcuno mi chiede: “Barbara, che strumento consigli per migliorare il clima interno?”
Io rispondo:
“Hai presente il caffè!? ☕ Ma preso insieme. Senza slide. E con il cellulare spento.”
L’intelligenza che manca (che l’IA non ha – per ora, eh!)
Durante uno degli ultimi incontri, in una PMI in provincia di Brescia (dove la gente è bella tosta eh!), una responsabile HR mi ha preso da parte – con quell’aria da “ti devo raccontare una cosa al volo ma in realtà sto esplodendo dentro” – e mi ha detto:
“Barbara, ho due ragazzi nuovi, giovani, brillanti. Hanno un CV che sembra scritto da un algoritmo in overdose: competenze tecniche a pacchi, velocissimi, multitasking, anche simpatici. Ma… non reggono un feedback. Appena gli dici che qualcosa può essere migliorato, vanno in tilt. Si chiudono, si irrigidiscono, ti guardano come se gli avessi appena comunicato che li stiamo deportando nella filiale in Siberia… che non abbiamo.”
E poi ha rincarato la dose: “Io non ho bisogno di più skill. Ne abbiamo già troppe. Io ho bisogno di più persone. Di gente con attributi, con verve. Che non si smaterializza appena c’è da guardare un collega negli occhi.”
Bingo. Quello è il punto.
Così, mentre sono tutti lì a rincorrere l’ennesimo applicativo su Python, l’ennesima certificazione Scrum, l’ennesima skill che fa figo su LinkedIn, stanno dimenticando l’unica competenza davvero distintiva nell’epoca delle macchine: l’intelligenza relazionale.
Quella cosa strana e potente che ti fa leggere ciò che non è scritto nelle mail.
Che ti fa sentire se una riunione è carica o depressa.
Che ti fa rispondere a un “va tutto bene” con un “non mi sembra proprio”.
L’intelligenza relazionale è la capacità di comprendere se stessi e gli altri con profondità, curiosità, umiltà.
È quella che ti permette di disinnescare un conflitto prima che diventi guerra fredda.
È quella che trasforma una comunicazione aziendale da “protocollo” a “dialogo”.
E – dettaglio non trascurabile – è l’unica che non può essere replicata da un software.
L’IA può generare parole, ma non sa generare fiducia.
Può analizzare sentimenti, ma non sa creare relazioni.
Può rilevare comportamenti, ma non sa restituire motivazione, senso, umanità.
Oggi che tutto il resto può essere delegato a una macchina – la contabilità, il recruiting, la pianificazione, perfino una fetta di leadership operativa – è questa intelligenza a segnare il confine tra un’azienda viva e un’azienda zombie.
Un’azienda viva respira, sbaglia, ride, si adatta.
Un’azienda zombie funziona… ma senza coscienza.
Come un distributore automatico: freddo, silenzioso, perfetto – ma con il rischio costante di restituirti la cosa sbagliata. E di farlo col suono metallico di una monetina che cade.
ESPERIENZA SUL CAMPO: I MANAGER “AD ALTO TASSO UMANO”
Durante il mio giro d’Italia aziendale, mi è capitato spesso di osservare una netta distinzione tra due razze manageriali (sì, razze – il termine è forte ma rende l’idea).
Da una parte ci sono quelli che si nascondono dietro le procedure.
Quelli che appena un collaboratore manifesta un’emozione – paura, frustrazione, stanchezza, perfino entusiasmo – si rifugiano nel regolamento aziendale come in un bunker antiatomico.
Se potessero, sostituirebbero tutti i colleghi con una macchina ben oliata, senza pause pranzo, senza ferie, senza “problemi personali”. E ora che l’IA bussa alla porta, alcuni di loro la guardano come Mosè guardava il Mar Rosso: come la soluzione definitiva.
Dall’altra parte, ci sono i leader “ad alto tasso umano”.
Quelli che non si mettono a “gestire il personale”.
Lo ascoltano. Lo interpretano. Lo comprendono, (anche nei silenzi).
E quando entrano in relazione, lo fanno sul serio. Anche quando fa paura. Anche quando c’è da sporcarsi le mani nelle zone grigie delle emozioni vere.
Uno di questi l’ho incontrato all’ombra del Vesuvio – e dove se no? – in una PMI che lavora nel settore agroalimentare (in regime di iper-concorrenza ovviamente).
La titolare – una di quelle donne che quando parla fanno più effetto di una convention intera – mi spiega con naturalezza quasi disarmante:
“Barbara, qui è così impegnativa gestire i clienti e la guerra dei prezzi al ribasso che, una volta al mese facciamo una riunione di recupero emozionale. Ognuno dice alla sua maniera cosa ha funzionato, cosa no, e soprattutto come si è sentito mentre stava in trincea a cercare di non perdere clienti e non mandare in rosso l’azienda. Stop. Un’ora. Parlano tutti. Nessuno è obbligato, ma nessuno si tira indietro.”
All’inizio, mi ha detto, i più scettici guardavano e commentavano l’iniziativa come si guarda e si commenta un esperimento sociale (e in effetti ci assomiglia). Poi, sono cambiate le dinamiche.
Gente che non si era mai parlata e che (deformazione professionale) vedeva chiunque – colleghi in primis – come dei competitor, ha cominciato a farlo.
Gente che sembrava “silenziosa e disillusa” che ritorna ciarliera e fantasiosa.
Gente che stava pensando di cambiare settore… che comincia riderci sopra e affrontare le obiezioni con spirito e inventiva.
E il risultato? “Le persone non chiedono più di parlarmi solo per lamentarsi o farmi la lista dei problemi. Producono di più. E – udite udite – sono vive.”
Quella pratica mensile, semplice, concreta, ripetibile… è Intelligenza Relazionale.
Non è un benefit. Non è una furbata HR. È una scelta strategica di leadership e… l’ha pensata e realizzata una persona, non la IA.
Capirete che, se mai le proponessi di sostituire quei momenti con un algoritmo che “analizza il clima aziendale”…
…probabilmente mi ci manderebbe lei in Siberia! E a ragione.
NO, NON È SOFT SKILL. È HARD. È BUSINESS.
Basta. Basta chiamarle “soft skill”, come se fossero delle caramelle comportamentali, dei gadget emozionali da distribuire in azienda quando c’è tempo. Quella definizione ha fatto più danni della formazione motivazionale un tanto al kilo.
L’Intelligenza Relazionale non è “soft”.
Non è un plus, non è un fiocco rosa sulle competenze “vere”.
È una competenza strategica. È business puro. È roba tosta.
Serve per gestire le crisi.
Serve per trattenere i talenti (sì, anche quelli con troppe lauree e zero pazienza).
Serve per evitare che un team si trasformi in una chat passivo-aggressiva con riunioni di trenta minuti piene di silenzi e occhi al cielo con gente che aspetta cosa dice l’altro solo per il gusto di dargli torto.
Chi non la sviluppa, non avrà solo qualche problema di comunicazione…
Si troverà in un contesto prima disconnesso e poi inefficiente.
Un’azienda in cui tutto procede, ma niente si collega. Dove i numeri crescono finché le persone evaporano.
E lo dico per esperienza diretta:
le aziende che oggi soffrono di “bassa produttività”, “turnover alto”, “calo di motivazione”…
non hanno (solo) un problema organizzativo. Hanno un vuoto relazionale.
Un vuoto che nessun software, nessun KPI e nessun tool potrà colmare. Neanche l’IA.
Solo chi sa leggere le persone, guidarle nelle difficoltà, creare connessioni autentiche –
riesce a costruire un’azienda capace di resistere al tempo, ai cambiamenti e anche alla più brillante delle intelligenze artificiali.
Quindi no, non è soft.
È hard. È fondamentale. È il core business.
Se vuoi persone vive, team sani, leadership che durano…
l’Intelligenza Relazionale non è un’opzione. È la leva.
E ORA?
A furia di girare aziende, ascoltare team, annusare l’aria che tira nei corridoi (spesso più densa dell’organigramma stesso), una cosa è diventata chiara:
serve un cambio di passo. Serve un salto di maturità. Serve allenare il muscolo più dimenticato del business: la relazione.
Per questo, grazie al mio ruolo qui in Open Source Management, sto organizzando un nuovo corso interamente dedicato a questo tema:
🎯 “Intelligenza Relazionale: la vera risorsa umana nell’era delle macchine”
Sarà un percorso concreto, perché non ho tempo da perdere in fuffa motivazionale.
Strutturato, perché i problemi relazionali si risolvono con metodo, non con gli abbracci a caso.
Con esempi reali, presi dalle aziende italiane vere, non dai libri americani con le foto dei sorrisi stock.
E con tecniche applicabili da subito, anche se il tuo team è più restio a parlare che a fare una riunione in piedi.
Perché la relazione non è una dote misteriosa che alcuni hanno e altri no.
Non è una “dote femminile”.
Non è un talento dei “nati empatici”.
È una competenza. E come ogni competenza, si può allenare.
Quindi sì: se l’Intelligenza Artificiale è il futuro –
allora l’Intelligenza Relazionale è la tua ancora di salvezza.
E io ci sarò. Insieme a OSM.
Noi ci saremo, con le maniche rimboccate, il caffè amaro, e qualche buona domanda per farti tornare a vedere le persone che hai attorno.
Perché non basta sapere dove andare.
Serve qualcuno che ti ci porti parlando la tua lingua. Umanamente.
Intelligenza relazionale: cos’è e perché è fondamentale per leader e manager